Opera Magazine
20/07/2017
Federico Zuccari e la storia delle pitture parietali della Cupola del Duomo
Nel giorno della sua morte, il 20 luglio, approfondiamo la figura di Federico Zuccari: mente e mano dietro gran parte degli affreschi della Cupola di Santa Maria del Fiore.
Il 20 luglio del 1609 si spegneva ad Ancona Federico Zuccari, uno degli artisti più importanti del cosiddetto “manierismo” tosco-romano del Cinquecento. Federico era di origine urbinate e di formazione artistica romana, ciononostante la grandezza del suo nome è legata soprattutto al suo periodo fiorentino; sono infatti suoi gli affreschi raffiguranti il Giudizio Universale tra santi e Allegorie nella cupola di Santa Maria del Fiore: circa 700 figure dipinte su oltre 3.600 mq di superficie . In sintesi: la pittura parietale più estesa del mondo.
Brunelleschi aveva lasciato l’interno della cupola intonacato, ma prevedendo una sua prossima decorazione, forse a mosaico come nella volta del Battistero, provvide a realizzare diversi affacci su cui i futuri artisti si sarebbero potuti avventurare in quel vuoto gigantesco . Eppure, un secolo dopo la sua morte, il progetto per colmare questo spazio bianco rimaneva inattuato, forse perché nacquero dei dubbi sulla capacità della cupola di sostenere il peso di milioni di tessere musive, o più semplicemente perché l’impresa appariva sovrumana.
La svolta avvenne nel 1572, quando il granduca Cosimo I decise di completare il rinnovamento dell’area presbiteriale del Duomo, affidando la decorazione pittorica dell’intradosso della cupola al suo fidato pittore di corte: l’anziano Giorgio Vasari.
La commissione era titanica non solo per dimensioni, ma anche per il programma iconologico, del quale fu incaricato uno dei maggiori intellettuali dell’epoca: Vincenzo Borghini. Borghini e Vasari immaginarono quindi come tema centrale il Giudizio Universale, eco di quello nel Battistero e al tempo stesso ispirato al più celebre della Sistina, ma ampliato e corretto nel segno dei nuovi dettami del Concilio di Trento (1545-1563).
Il Cristo Giudice appare così circondato da un tribunale composto da un’infinità di allegorie, nonché da miriadi di santi, beati, dannati, angeli, demoni e profeti, organizzati secondo un senso di lettura sia verticale (in ordine agli spicchi), che orizzontale (in ordine a diversi registri concentrici sovrapposti). Chissà con quanta fatica il vecchio Vasari approntò i giganteschi cartoni per le prime fasce decorative, e quanto dovette essere difficile per l’anziano pittore salire a circa 90 metri ad affrescare i ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse, che si affacciano dalle tribune intorno all’oculo della lanterna. Di lì a poco, nel giugno 1574, due anni dopo aver avviato i lavori, Vasari morì, a due mesi dal suo mecenate e committente: Cosimo I.
La successione al trono, con l’ascesa di Francesco I, portò anche a un cambiamento di gusto nella commissione: il nuovo Granduca chiamò a completare il ciclo nel 1576 un pittore già celebre, ma estraneo alla cultura fiorentina e vasariana : l’urbinate Federico Zuccari. Lo Zuccari si lanciò nell’impresa con uno spirito di rottura rispetto a Vasari, pur nei limiti concessi dal Borghini.
Stilisticamente: abbandonò la tecnica del buon affresco fiorentino e preferì la tempera su muro, segno di una mentalità imprenditoriale di origine romana, che prediligeva la quantità alla qualità di decorazioni ampie e fastose, realizzate in breve tempo, ma rinunciando alla pulizia del disegno e alla compattezza della pittura; inoltre con la tecnica “a secco”, assai meno durevole dell’affresco.
Confrontando gli affreschi definitivi dello Zuccari con i disegni dell’invenzione vasariana si nota come Zuccari passò da uno stile michelangiolesco, tipicamente fiorentino, a un più dolce pietismo di matrice raffaellesca, qual era il gusto affermatosi a Roma. Inoltre, aggiunse, sottrasse e modificò vari gruppi di figure, così che, per esempio, si vedono far capolino nel registro sovrastante il grande Lucifero, molti ritratti di regnanti, alti membri della corte e artisti amici del pittore, nonché l’autoritratto dello stesso Zuccari tra i suoi familiari.
Spetta quasi interamente a lui l’invenzione del registro inferiore, dove sono i dannati, ordinati per tipologia di vizio, e i demoni che li puniscono secondo il principio dantesco del “contrappasso”. La sua efficiente rapidità esecutiva permise allo Zuccari di terminare il lavoro nel 1579: in soli tre anni!
Fiero della propria impresa il pittore si autocelebrò con una medaglia (conservata ora al Bargello). Ma la sua soddisfazione non era la stessa del popolo fiorentino, che fin dal primo giorno non risparmiò critiche feroci agli affreschi. Straordinaria in tal senso la poesia satirica del mordace poeta Grazzini, detto “il Lasca”, testimone oculare dello svelamento del cantiere, che in una celebre poesia dedicata all’impresa, concluse l’elenco delle aspre critiche con una proposta: rimbiancare tutto.
Fortunatamente il suo “suggerimento” non fu mai ascoltato e gli affreschi sono sopravvissuti fino ad oggi. Al contrario, un lungo intervento di restauro compiuto tra il 1980 e il 1995 ha ridato vita a questo straordinario ciclo, che potremmo definire, con orgoglio, una “Cappella Sistina fiorentina”.