Opera Magazine
28/12/2017
Perché è importante conoscere i Sarcofagi della Sala del Paradiso
I Sarcofagi esposti nel Museo dell'Opera del Duomo e il loro ruolo nella “rinascita” dell’arte in senso classico avviata dai Pisano prima, da Arnolfo e Giotto poi, e che troverà compimento nel Rinascimento.
La sala maggiore del Museo dell’Opera del Duomo è detta “del Paradiso”, dall’antico nome dello spazio della piazza compreso tra la Cattedrale e il Battistero, che è qui rievocato dall’allestimento delle superstiti decorazioni scultoree di questi monumenti: da una parte è riprodotta la prima facciata di Santa Maria del Fiore con i gruppi statuari di Arnolfo e dei suoi allievi, e dall’altra le porte bronzee di San Giovanni istoriate da Andrea Pisano e da Ghiberti, sormontate dai gruppi cinquecenteschi in marmo e bronzo con scene della vita del Battista.
Ma si trovano qui esposti anche altri elementi provenienti da quest’area, in particolare, si notano parti e frammenti di antichi Sarcofagi romani, tra i quali, per bellezza e integrità, spiccano i due in marmo, istoriati, che sono disposti nei lati corti della sala.
Entrambi sono a cassa quadrangolare, in marmo; entrambi avevano un coperchio a capanna (ma solo uno dei due è giunto fino a noi); in entrambi la fronte è scolpita nella forma di un proscenio architettonico che finge la fronte monumentale di un edificio, per alludere al sarcofago come "casa dei defunti": una soglia che divide il mondo dei vivi da quello dei morti.
Il sarcofago a destra di chi guarda la facciata (datato intorno al III secolo d.C.), è detto “di Mercurio”, perché al centro è una porta dischiusa, che si capisce essere quella dell’Ade, da cui fa capolino l’antica divinità olimpica legata al culto dei morti. Sembra introdurre i due defunti, che sono ritratti ai lati: la matrona è a sinistra di chi guarda, velata, con ai piedi gli attributi del pavone e del fiore; il “pater familiae”, suo coniuge, è a destra, togato, calvo e anziano, con ai piedi il figlio e un insieme di rotoli posti su uno scrigno, attributi probabilmente della sua professione di letterato o intellettuale.
Nel “frons scenae” dell’altro sarcofago si individuano tre nicchie centinate spartite da colonnine libere: al centro, in bassorilievo, le figure dei due coniugi, rappresentati in atto di compiere il rito della “dextrarum iunctio”, ovvero il gesto dell’antica tradizione romana di stringersi la mano destra come simbolo di unione matrimoniale: negli intercolunni laterali sono altre due, una maschile e una femminile, l’una velata, l’altra in abiti militari, forse due divinità o forse gli stessi sposi ripetuti; nelle nicchie laterali sono raffigurati Castore e Polluce, personaggi della mitologia classica.
I due Sarcofagi sono una presenza che ha apparentemente il sapore di estraneità in questa sala: si tratta infatti di due pezzi di arte funeraria romana tardo-imperiale e di soggetto pagano, posti in un contesto di arte sacra, toscana, tardo-medioevale e rinascimentale. Eppure tra queste opere lontane nel tempo c’è un legame storico e devozionale fortissimo: non solo i Sarcofagi provengono dallo spazio del Paradiso e qui rimasero esposti dal tempo della Florentia romana fino al Novecento, ma convissero per secoli con le sculture che si affacciano sul Paradiso, a partire da quelle di Arnolfo, con le quali dimostrano un’affinità estetica nell’uso del marmo e nella plastica delle figure scolpite: segno di quanto questi esempi di arte antica abbiano avuto un’influenza diretta sulla rivoluzione protorinascimentale operata dagli artisti del primo Trecento fiorentino.
Si deve inoltre tener presente che questi non erano gli unici esempi di arte funeraria antica che Arnolfo di Cambio incontrava nel suo cantiere. Il “recinto” compreso tra la Cattedrale e piazza San Giovanni fu, dai tempi più remoti fino al XIV secolo, un’area cimiteriale “monumentale”, la quale prese poi il nome di “Paradiso”, a indicare un luogo di passaggio dalla morte all’eternità del Cielo sperata dai cristiani. E in questa “città dei morti” – che, tramanda lo storico Villani, era riservata in principio “alla buona gente” - nell’XI secolo fu poi eretto il Battistero, per i significati teologici che la dottrina cattolica stabilisce a parallelo tra la fede dei giusti nella resurrezione dei corpi e la rinascita spirituale conquistata col Battesimo.
A riprova di questa correlazione nel mosaico della volta all’interno del Battistero si osservano i corpi dei risorgenti rianimarsi entro arche marmoree, che sono memoria delle tante un tempo visibili all’esterno della piazza. Un’altra testimonianza ci viene dal Boccaccio che, nella nona Novella della sesta giornata del Decamerone, descrive i protagonisti aggirarsi tra alcuni avelli collocati tra Santa Reparata e il Battistero, che chiama “Case de’ morti”.
La verità storica è che si tratta di sepolture d’epoca romana, già presenti in piazza, oppure rinvenute nell’immediato sottosuolo, riutilizzate nel medioevo come sepolture monumentali per personalità eminenti. Fino al XV secolo era diffuso e frequente il reimpiego di reperti antichi: talvolta per il risparmio di materiale costoso, altre volte trasformati con cambio di patronato, altre ancora conservati nella loro integrità per la loro rarità e bellezza. I due Sarcofagi del museo appartennero a quest'ultime categorie.
All’interno del Battistero si conservano due altri esempi di avelli antichi recuperati per sepolture medioevali: il sarcofago con caccia al cinghiale, divenuto sepolcro del gonfaloniere Guccio dei Medici nel 1299, e un secondo detto “della fioraia”, poi sepoltura di Giovanni da Velletri. Un quinto lo troviamo sempre all’interno del museo, ma nella sala dedicata alle opere provenienti dalle navate della Cattedrale: l’avello di Piero del Farnese.
Solo nel 1824, quando gli edifici che le ospitavano e tutto quel lato della piazza furono ricostruiti dall’architetto Baccani, si decise che i Sarcofagi fossero dati in deposito alle Gallerie di Stato: in quest’occasione furono trovati al loro interno resti umani e di oggetti, che furono inumati. Ma – per complicazioni burocratiche – le due arche finirono invece nel cortile di Palazzo Medici Riccardi, allora sede della Prefettura, dove si pensò, per un periodo, di dare loro sistemazione definitiva. L’Opera di Santa Maria del Fiore riuscì a rientrarne in possesso oltre un secolo dopo (1930) a seguito di lunghe battaglie epistolari, cosciente di quanto valore avessero per la storia dell’Opera.
L’avello di Piero del Farnese.
Non potendo ancora essere accolti per mancanza di spazio, né nel Museo né nel Battistero, si decise per una collocazione esterna ai lati della Porta Sud del Battistero per i due oggi al Museo e all’interno del tempio per quello di Guccio de’ Medici, dov’è tuttora. Sfortunatamente furono qui colpiti dall’alluvione del '66 (che causò la dispersione della copertura di quello “di Mercurio”) e, solo dopo un attento restauro, i due Sarcofagi hanno potuto trovare posto nel Museo dell’Opera, nel cortile d’ingresso, anche per sottrarli, come riportano i documenti, dall’incuria dei cittadini che avevano iniziato ad usare il sarcofago scoperto come ricettacolo d’immondizie. Ma solo nel nuovo allestimento, inaugurato nel 2015, ai due è stata restituita una collocazione appropriata, nel ricreato spazio di provenienza, in dialogo costante con le sculture della facciata.
Un dialogo importantissimo per la Storia dell’Arte, perché quando Arnolfo lavorava alle sue statue aveva presenti sotto gli occhi come modello e fonte d’ispirazione questi esempi di arte antica. Ecco la ragione della straordinaria affinità che constatiamo tra i due Sarcofagi e le opere di Arnolfo: condividono il naturalismo in senso classico, e anche una sintonia plastica, di figure rese per volumi poderosi e sintetici, e poi ordinate in architetture di archi, nicchie e loggette sovrapposte.
La facciata "arnolfiana", riprodotta in scala 1:1 nella Sala del Paradiso.
Questi marmi antichi parteciparono quindi, indirettamente, a quella “rinascita” dell’arte in senso classico avviata dai Pisano prima, da Arnolfo e Giotto poi, e che troverà compimento nel Rinascimento, tanto che si scorge l’influenza di queste opere su altre del XV secolo: valga l’esempio massimo delle cantorie di Donatello e Luca, con la loro forma a cassa quadrangolare marmorea e le figure in bassorilievo ritmate da colonne o paraste.
Al moderno visitatore informato della loro storia, le sculture di Arnolfo per la facciata e questi lacerti dell’arte classica appariranno così come gli estremi di un discorso d’arte interrotto e ripreso a distanza di un millennio (III-XIV secolo); un discorso su quegli ideali estetici antichi che sono la linfa dell’arte protorinascimentale della Firenze del Duecento e Trecento.