Opera Magazine
24/03/2022
Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto più comunemente, Donatello è certamente stato uno dei più grandi scultori della storia dell’arte di tutti i tempi e, forse, il più rivoluzionario. La sua figura di genio vulcanico ed eclettico compare sul palcoscenico dell’arte tardogotica come un astro splendente, che influenzò con il suo linguaggio innovativo tutti gli artisti a contatto con lui, a partire da Masaccio. Insieme al suo amico intimo Brunelleschi, fu lui ad accendere la fiamma del Rinascimento nelle arti. I due amici, Filippo e Donato, meditarono insieme da giovanissimi questa rivoluzione meravigliosa andando a Roma a studiare le rovine degli antichi. Quando rientrarono a Firenze, dove la cultura umanistica e la libertà di pensiero abbondavano, diedero avvio alla loro nuova idea di bellezza. Il luogo dove questa luce fu accesa è piazza del Duomo a Firenze. Qui Brunelleschi “inventò” la prospettiva guardando verso il Battistero dall’interno della Cattedrale e, soprattutto, costruì l’immensa cupola, simbolo stesso di questa nuova cultura. Qui Donato realizzò un gran numero di sculture, dalla giovinezza alla tarda età, con le quali non solo iniziò la scultura rinascimentale, ma offrì una nuova visione della bellezza artistica e dell’umanità stessa.
Il suo percorso prese avvio come collaboratore nei cantieri della Porta Nord del Battistero di Lorenzo Ghiberti ma ben presto ricevette opere come maestro autonomo sul cantiere della Porta nord della Cattedrale, detta della Mandorla, a braccetto con un sodale altrettanto coraggioso ma meno talentuoso: Nanni di Banco. Sono attribuiti a loro i due piccoli e giovani profeti dai pinnacoli della Porta, ora conservati al Museo. Il più plasticamente potente dei due, attribuito a Donatello assomiglia moltissimo al David, che l’Opera aveva commissionato a Donatello per ornare uno degli speroni esterni dell’area presbiteriale della Cattedrale e ora nel Museo Nazionale del Bargello. Nella stessa Porta della Mandorla sono riferiti alla mano di un Donatello appena ventenne il commovente e umanissimo Cristo in pietà nell’archivolto (ora al Museo) e i due volti negli angoli inferiori del timpano marmoreo.
Entro il 1415, non ancora trentenne, Donato consegnò all’Opera del Duomo il suo grandioso San Giovanni evangelista per uno dei nicchioni ai lati del portale centrale della Cattedrale, a completare il gruppo degli evangelisti, realizzati da Pietro Lamberti, Bernardo Ciuffagni e dal suo amico Nanni di Banco. Il San Giovanni di Donatello supera per bellezza e intensità le opere degli altri maestri. In pochi centimetri di spessore lo scultore diede vita alla figura di un anziano saldamente intronato e, al tempo stesso, vibrante nella plastica e nell’espressione del volto di un moto spirituale interiore molto intenso. Non è un caso se un secolo dopo Michelangelo guarderà a questo capolavoro per il proprio Mosè.
Ormai affermato il proprio talento a Donatello furono poi affidate le sculture per le nicchie del Campanile di Giotto, a completare la serie dei profeti dei Pisano. Tra il 1416 e il 1436 egli consegnò cinque statue marmoree che sono pietre miliari della storia della scultura. I suoi profeti esprimono una naturalezza dei corpi, delle pose, delle espressioni e delle vesti di figure senza precedenti, che l le fa sembrare vive. E questo loro apparire animate non è una finzione della superficie del marmo; sembra piuttosto che dall’interno del loro animo lo spirito promani verso l’esterno imprimendo una forma alla pietra. Uno è pensieroso, un altro è spaventato, un altro è malinconico e deciso. Nel gruppo spiccano per bellezza due opere: il Sacrificio di Isacco, con il vecchio Abramo che torce la testa e rivolge lo sguardo sconvolto verso l’angelo di Dio (la cui presenza è chiara pur non essendo raffigurato) e con il giovane Isacco genuflesso, che è il primo nudo a dimensioni naturali dell’arte moderna occidentale. L’altra è il cosiddetto “Zuccone”, forse il profeta Abacuc, col cranio scavato, gli occhi sbarrati e la bocca spaventosamente socchiusa nel gesto di profetare. Così “vivo” che nelle sue Vite Vasari immaginò che Donatello, completatolo, lo avesse implorato di parlare.
Mentre lavorava a questi marmi l’ormai affermato maestro, strinse un sodalizio con il talentuoso architetto e scultore Michelozzo. Tra il 1422 e il 1431 i due artisti ricevettero una commissione davvero importante, forse mediata da Cosimo il vecchio dei Medici, loro comune potentissimo amico e mecenate: il Monumento Funebre al Cardinal Baldassarre Cossa (o “Coscia”), antipapa dimissionario Giovanni XXIII. Il monumento fu collocato in Battistero, a parete, tra due colonne interne ed è la prima “tomba rinascimentale”. In alto è cristallizzata nel bronzo dorato e nel marmo dipinto l’esposizione funebre del defunto, giacente su un ricco cataletto a baldacchino, in abiti cardinalizi, alla presenza, sul fondo, della Madonna con Bambino.
Al di sotto c’è il sarcofago, segnato da una cartella all’antica con epigrafe e genietti funerari. Esso è sostenuto da un dossale con le figure delle tre virtù teologali, ed è a sua volta elevato su un basamento ornato da bellissimi putti reggifestone. Un capolavoro in ogni sua parte!
Il genio di Donatello era eclettico e la sua arte era in grado di dar forma a ogni genere di materia, servendosi di ogni tipo di tecnica. Nel 1433 fu preferito il suo disegno a quello del Ghiberti per la vetrata più importante del tamburo della cupola, quella a est con l’incoronazione della Vergine. Anche qui Donatello portò innovazione nell’arte vetraria, conferendo profondità prospettica alla rappresentazione della scena: la cornice è un’imbotte con Cherubini e Cristo con Maria siedono su un trono il cui basamento degrada verso il fondo.
Negli anni del completamento della cupola, nell’ambito dell’arredo dell’area presbiteriale, l’Opera commissionò a Luca della Robbia e a Donatello due grandi cantorie marmoree, da porsi rispettivamente alle pareti nord-est e sud-est. Dopo esser stati smantellati nel 1688, questi due capolavori di scultura rinascimentale furono riassemblati solo nel 1891 nella sala del Museo che da loro prende nome ed anzi, la volontà dell’Opera di mantenerne il possesso fu la ragione stessa per cui fu creato il Museo. Se la cantoria di Luca è un ordinato susseguirsi di riquadri con rilievi raffiguranti giovani che cantano, danzano e suonano, quella di Donatello finge una loggia dietro la quale due file contrapposte di putti alati fanno un girotondo frenetico. Tanto apollinea, ferma e chiara è la prima, quanto animata e piena di movimento è la seconda: nella danza dei putti, nel forte contrasto di pieni e vuoti e nell’eclettico uso di tecniche e stili diversi, dal mosaico romaico, ai sarcofagi marmorei antichi, all’intarsio marmoreo romanico, al bronzo classico.
Ormai vicino ai settanta anni, Donato regalò al Battistero un ultimo capolavoro, la statua lignea raffigurante a dimensioni naturali la Maddalena penitente, ideale pendant del Battista errabondo nel deserto, titolare del tempio. Benché alla fine della vita Donatello continuò a innovare l’arte superando la tradizione. La sua Maddalena è in materiali poveri - legno e stoppa dipinti e dorati - piuttosto che nel nobile marmo bianco dell’arte classica e, sebbene le sue proporzioni e i dettagli anatomici siano perfetti, le sue fattezze sono di una donna scarnificata e de-umanizzata dai digiuni e dal sole del deserto. È bellissima e orribile al tempo stesso. È ambasciatrice di un nuovo canone estetico che supera anche il Rinascimento elevando il genio di Donatello in una dimensione universale, sempre attuale, immortale.