Opera Magazine
12/06/2018
Tutti i mosaici che puoi ammirare in Piazza del Duomo
Il Battistero, la Cattedrale e il Museo dell’Opera del Duomo di Firenze conservano straordinari esempi di arte musiva, alcuni dei quali tra i più importanti della storia dell’arte italiana ed europea.
Quando si pensa ai mosaici, la memoria corre generalmente agli edifici paleocristiani di Roma e Ravenna, alla Sicilia arabo-normanna, al medio oriente bizantino o al romanico veneziano; Venezia, soprattutto, offre tra i più bei cicli musivi “romanici” d’Europa. A partire dall’XI secolo, infatti, la Serenissima avviò la decorazione a mosaico delle volte della basilica di San Marco, dando vita a botteghe specializzate, tenute dai migliori maestri in Italia di arte musiva, eredi della grande tradizione del mondo “bizantino”. Ma attraverso l’oriente di Bisanzio, il medioevo veneziano e italiano ricercavano le gloriose radici della Roma antica di cui quello fu erede. I mosaicisti romani infatti diedero tra i primi e più alti esempi di quest’arte in Europa, Medio Oriente e Nord Africa.
Su queste premesse, sebbene la notizia non abbia riscontri documentari, è evidente il fondamento storico di quanto riportato dal Vasari: nel XIII secolo, un artista fiorentino, Andrea Tafi, si sarebbe diretto proprio a Venezia alla ricerca di maestri vetrai e del mosaico che potessero trasferirsi a Firenze, travasando qui i loro segreti di bottega (il know-how, diremmo oggi); e lì avrebbe trovato il maestro Apollonio, che Vasari specifica essere “greco”, originario dell’impero romano d’oriente, culla dell’arte del mosaico. Tafi e Apollonio diedero avvio a quello stupefacente capolavoro che è la volta del Battistero di Firenze: circa mille metri quadri di tessere vitree, dipinte e dorate, disposte sapientemente - con diverso orientamento per amplificarne lo sfavillio - a ricoprire gli otto spicchi della volta, i matronei, i parapetti e gli strombi delle porte. Su commissione della potente Arte di Calimala, posta nel luogo cardine dell’identità religiosa e civile fiorentina, quest’opera assimilò ancor di più il Battistero agli interni rifulgenti d’oro delle basiliche paleocristiane romane e bizantine.
Al centro della sezione sovrastante l’altare, troneggia un titanico Cristo giudice della fine dei tempi, sotto il quale i morti escono dai loro avelli per ricevere il giudizio; i destinati al Paradiso salgono alla sua destra e le loro “animulae” vengono accolte nella Gerusalemme Celeste tra le braccia dei padri veterotestamentari; a sinistra, le dannate sprofondano all’Inferno, nel celeberrimo settore abitato da Lucifero e dai suoi demoni, che ispirò quello descritto nel XXXIV canto dell’Inferno da Dante Alighieri: a tre facce, con ali di pipistrello e peccatori nelle fauci. Intorno a questo momento, lungo diversi registri orizzontali, sono raffigurate le tappe di questo cammino, come narrate dalle Sacre scritture. In apice, una fascia decorata da volute e girali fitomorfe, abitate da angeli e coppie di animali: forse una rappresentazione dell’Eden; lo stile è orientaleggiante, non a caso questa dovrebbe essere la sezione realizzata da Tafi e Apollonio.
Il secondo anello è cinto dalle gerarchie angeliche, questo settore sembra anticipare la visione del Paradiso dantesca. Scendendo di un registro, si passa alle storie tratte dal Libro della Genesi: dalla Creazione dell’uomo al Peccato originale, fino al Diluvio. E similmente Giuseppe ebreo, le cui storie si svolgono nel cerchio sottostante, tradito dai fratelli ma misericordioso con loro, è figura che l’esegesi cristiana interpretò come prefigurazione di Cristo; seguono infatti le storie di Maria e di Gesù; e si giunge a conclusione con la vita di san Giovanni Battista, patrono del tempio, e che ritorna anche nella volta della scarsella, dove troneggia di fronte alla Vergine Maria; nelle gallerie e nei parapetti dei matronei, infine, si affacciano santi e profeti: la chiesa trionfante che sembra assistere al battesimo, come ad accogliere il neofita nel Paradiso cui potrà accedere.
Si tratta di un cantiere il cui avvio si perde nella leggenda, probabilmente nel secondo quarto del XIII secolo, e che proseguirà per un secolo, vedendo l’alternarsi e il collaborare di diversi maestri, tra i maggiori del loro tempo, e sui quali la critica ha speso molto impegno in attribuzioni, che sono rimaste però solo stilistiche mancando quasi totalmente i documenti. Oltre a ciò, vi è la difficoltà di confrontare lo stile di grandi cicli a tessere musive col disegno di pale mai di grandi dimensioni, realizzate in pittura, con minor collaborazione di bottega; si tratta, soprattutto, di artisti con un corpus di opere note ridotto. Sappiamo che il cantiere mantenne una certa dipendenza dai maestri mosaicisti veneziani per la fabbricazione di tessere, ma a partire dall’anello di Apollonio e Tafi, spettò poi a maestri locali fornire i cartoni dei disegni.
La volta fu così uno straordinario laboratorio ed è oggi un catalogo impressionante della pittura toscana precedente a Giotto: appare il nome di fra’ Jacopo nel sacello, e la data del 1228, ma non fu questa la porzione più antica; per gli altri riquadri sono invece stati proposti i nomi di Gaddo Gaddi - che Vasari tramanda socio del Tafi - e di Coppo di Marcovaldo e Cimabue, assieme a una molteplicità di altre mani, variamente attribuite a maestranze anonime ma riconoscibili: il cosiddetto Maestro di Santa Cecilia, il Maestro della Maddalena e altri maestri del tempo, protagonisti e testimoni del passaggio rivoluzionario dalla tradizione bizantina a quella “moderna”.
Intorno al terzo decennio del Trecento il ciclo era completato; ma la copertura marmorea del battistero risultò fin da subito poco impermeabile, con conseguente guasto dei mosaici, tanto che un primo restauro avvenne già nel XIV secolo, e un secondo nel XV, a opera di Alessio Baldovinetti. All'inizio del XX secolo, all’interno di grandi lavori di consolidamento del tempio, sarà il senese Arturo Viligiardi a compiere un mirabile restauro a mosaico, integrativo e “in stile”, reinventando interamente i perduti primi due episodi della vita di Noè. Questo ciclo unico fu un’impresa dispendiosissima; le materie primarie, soprattutto l’oro, usato qui in abbondanza, erano il simbolo della potenza economica raggiunta dall’Arte di Calimala e della Firenze dei “negozi” tutta, ma anche della Firenze devota.
Lo splendore della volta superò perfino la magnificenza del rivestimento esterno e delle tarsie marmoree del pavimento. Ciò restituisce l’idea di come il mondo classico tardo sopravvivesse come presenza costante nella vita della Firenze antica: scendendo da S. Maria del Fiore tra i resti dell’antica cattedrale di Santa Reparata, infatti, si trovano estesi lacerti stratificati delle diverse pavimentazioni, delle quali straordinarie sono le porzioni del tempo più remoto, della fondazione nel V secolo, che sono disegnati in mosaico con motivi geometrici astratti e, al centro del presbiterio, vedono raffigurato un pavone, antico simbolo di resurrezione.
Risalendo in cattedrale si può poi ammirare in controfacciata il lunettone a mosaico a fondo oro, raffigurante l’Incoronazione della Vergine tra angeli e il Tetramorfo, attribuito a Gaddo Gaddi, afferente alle maestranze attive nel Battistero e a San Miniato e appartenente al tempo della facciata di Arnolfo, alla quale si ricollega anche concettualmente nell’iconografia di soggetto mariano. Non si dimentichi che la facciata di Arnolfo prevedeva una decorazione a motivi geometrici, a intarsi marmorei mosaicati in tessere policrome e dorate. Alcuni parti frammentarie dell’antica facciata si trovano oggi nel Museo: bellissimo il lunettone in marmo rosa e oro posto alle spalle della Madonna “dagli occhi di vetro” di Arnolfo; e tra gli altri fissati a parete nella sala, detta “dei frammenti”, è notevole il maggiore, a lacunari mosaicati; essi ci restituiscono appena l’effetto di splendore che quest’opera doveva restituire alla luce del sole.
A tal proposito si ricordi come Firenze sia una delle città dove più a lungo, fino al Rinascimento laurenziano, proseguì l’amore per la decorazione musiva, che rievocava appunto il primo cristianesimo e gli splendori d’oriente. Tale “revival” musivo vide l’adesione di alcuni tra i massimi artisti fiorentini nel XV secolo: già Brunelleschi aveva forse pensato proprio ad un mosaico per decorare la volta della sua cupola.
Forse è in relazione a questo mancato progetto del suo amico Filippo che Donatello, nell’inventare le forme della sua cantoria, riprese anch’egli l’arte del mosaico, inserendo tessere oro nelle colonnette del loggiato e a sfondo dei suoi putti danzanti, e paste vitree colorate a decorare le cornici. Anche all’esterno, nel timpano lunettato della Porta “della Mandorla”, risplende un’Annunciazione a mosaico, a fondo oro, dal sapore antico, ma che nel disegno si rivela rinascimentale: fu infatti realizzata su disegno del Ghirlandaio, in piena epoca laurenziana, a completamento della decorazione scultorea di quest’ingresso.
Passeranno poi ben quattro secoli, fino al XIX secolo, quando all’interno del cantiere della definitiva facciata, in accordo al suo stile neo-trecentesco, si scelse opportunamente la tecnica “medioevale” del mosaico per la decorazione dei fondali dei busti marmorei nei quadrilobi e per quella dei timpani dei tre portali. Quest’ultimi furono eseguiti su disegno del maestro genovese Niccolò Barabino e il disegno di questi mosaici è esplicitamente “moderno”, mentre la tecnica e l’iconografia rimandano al Trecento: sono quindi una celebrazione del glorioso passato “medievale” di Firenze, al tempo Repubblica, e un’allusione risorgimentale al tempo e ai valori dell’era della libertà comunale.
Infine, ma non ultimo per importanza, è conservato nel Museo (recentemente restaurato) un dittico a micro-mosaico - composto di due tavolette di minime dimensioni, in micro-tessere fissate a un tappeto di cera - a raffigurare le dodici più importanti festività del calendario cristiano, opera di un anonimo maestro bizantino nel XIV secolo. Quest’oggetto d’arte unico proviene dal tesoro di San Giovanni, al quale fu donato nel 1394 dalla nobile veneziana Nicoletta di Antonio Grioni, vedova del fiorentino Pietro Torrigiani, che fu – ecco spiegata la provenienza - cubicolario dell’imperatore di Costantinopoli.
Si tratta di un oggetto la cui forma e la cui storia ci raccontano di una Firenze antica aperta alle suggestioni del passato classico e di quello orientale, nel segno di una tecnica, il mosaico, che per secoli fu lingua comune a molte civiltà del Mediterraneo e che nel cuore religioso di Firenze trovò una delle sue massime espressioni.