Opera Magazine
10/04/2017
L'Altare d'argento: il capolavoro che unisce età gotica e Rinascimento
L'opera che ha impegnato alcuni dei più grandi artisti fiorentini per un secolo: da Cennini a Michelozzo, fino al Pollaiolo e Verrocchio. È l'altare d'argento, una meraviglia che forse non tutti conoscono.
Se hai visitato il Museo dell’Opera del Duomo, ti sarà capitato di entrare nella sala dove si conservano i tesori provenienti dal Battistero di San Giovanni e dove, sul fondo, troneggia il suo pezzo più prezioso: il cosiddetto Altare d’argento. Più precisamente, si tratta di un “antependium”, ossia di una sorta di maschera lussuosa in argento montata su un’anima lignea, che in occasione delle feste solenni - su tutte quella del suo patrono - veniva fissata all’altare rialzato (com’è collocato in Museo), sul quale a sua volta erano esposti gli ori del suo tesoro.
Assieme alle porte del Ghiberti, l’Altare d’argento è uno dei maggiori capolavori dell’oreficeria fiorentina di ogni tempo; le sue dimensioni recitano: 310x150x88 cm, per un peso complessivo di 200 kg di argento e 1.050 placchette smaltate. L’impressionante commissione giunse nel 1366 dall’Arte di Calimala, patrona di questo luogo di culto, e si protrasse per circa un secolo, coinvolgendo mani e menti dei maggiori orefici toscani di diverse generazioni: Leonardo di ser Giovanni, Betto di Geri, Cristofano di Paolo, Tommaso Ghiberti, Matteo di Giovanni, Bernardo Cennini, Antonio di Salvi, Michelozzo, Antonio del Pollaiolo e Andrea del Verrocchio.
Per questo il direttore del Museo dell'Opera del Duomo, Timothy Verdon, in occasione del suo restauro, ultimato nel 2012, ha definito l’altare: "Una sintesi delle principali tendenze dell’oreficeria e della scultura fiorentine dall’età gotica al pieno Rinascimento”.
Entro una complessa architettura arricchita di cuspidi e gallerie di nicchie, stanno incastonate, disponendosi su due registri, dodici formelle quadrangolari, istoriate con altrettanti episodi della vita di San Giovanni Battista, patrono di Firenze, del tempio e del sacramento cui è destinata l'opera. Le scene si leggono da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso, ma la loro esecuzione si svolse fondendo progressivamente la grande lamina d’argento liscia, collocata fin da principio, a funzionare come un paliotto, a cominciare dal prospetto frontale e lasciando le quattro scene dei lati per i maestri del secolo successivo.
Avviene così che, nel leggere le storie, ci si trovi a sfogliare un ideale catalogo dell’arte fiorentina nel passaggio cruciale dalla fine della lingua “gotica” del tardo Trecento a quella del Rinascimento maturo. Da notare la sintesi lineare e la minuzia narrativa di case ed elementi naturali del San Giovannino che va nel deserto, o del Battista in carcere, e si confrontino con le architetture ariose descritte da impianti spaziali saldi, dove è usata la prospettiva scoperta da Brunelleschi nel 1416-19, negli episodi del Cennini e del Pollaiolo, o della decollazione del Verrocchio, forse la più felice di tutta l’opera, benché la meno visibile (e rimane il sospetto che su questa scena abbia lavorato anche un giovanissimo Leonardo).
Infine, al pieno Quattrocento appartengono le cornici in legno dorato che lo cingono, e il bel Battista dell’architetto e scultore di casa Medici, Michelozzo, che troneggia, maggiore per grandezza, entro una nicchia centrale così simile ad un altro dello stesso artista, in terracotta e di grandi dimensioni, alla Santissima Annunziata.
L’antependium del Battistero è strettamente correlato alla Croce bronzea che Pollaiolo modellò come diadema del tesoro quando nelle solennità stava sull’altare (assieme a due candelieri, purtroppo perduti) tra gli ori e gli argenti delle suppellettili e dei reliquiari; per questo, nel Museo, i due pezzi sono stati posti in asse visivo. Inoltre, l’altare costituisce l’ideale prosecuzione del più antico, più grande e, per certi versi simile, Altare di San Jacopo nel duomo di Pistoia, che fu il cantiere dove si formarono e crebbero in fama molti degli artisti (non ultimo un giovanissimo Brunelleschi) poi chiamati a Firenze dalla Corporazione di Calimala, che aveva tra le sue intenzioni quella di surclassare l’”antenato” pistoiese.
Infine, un’eco di quest’opera si trova anche nell’antependium in argento dorato dell’altare del Duomo di Teramo, eseguito tra il 1433 e il 1448 con Storie di Cristo, da Nicola di Guardiagrele, un artista che conobbe l’arte fiorentina e in particolar modo studiò con attenzione la Porta nord di Ghiberti, delle cui formelle troviamo memoria precisa in quelle del suo paliotto; nel Museo si conservano alcune formelle lapidee, opera di un maestro prossimo a Nicola, dove la citazione dalle Storie di Cristo di Ghiberti è esplicita.
Arrivando all'oggi: l'Altare d'argento, nel 2012, è stato protagonista di un profondissimo lavoro di restauro da parte dell'Opificio delle Pietre Dure, durato 6 anni, durante i quali l'opera è stata minuziosamente smontata e poi pulita. Proprio per le straordinarietà dell'Altare, oggi è conservato sotto azoto, all'interno di una teca, in condizioni ideali di temperatura ed umidità. Ora non resta che farti un giro al museo per ammirare dal vivo uno dei maggiori capolavori fiorentini.